Feste e tradizioni

Giovedì, 9 Novembre, 2023 - 10:00

LE FESTE

La festa come evento comunitario è il tempo in cui la comunità si riconosce e lo spazio in cui la società locale si ricompone. In passato la festa, prima che il consumismo ne stravolgesse il significato, svolgeva un’importante funzione di incontro e scambio sociale, che consentiva alle piccole comunità contadine, generalmente chiuse in se stesse, di conoscere e frequentare altre persone e ai giovani dei due sessi di superare il rischio endogamico. Inoltre, la festa osava lanciare un ponte tra il tempo (scandito dal succedersi delle stagioni e dei lavori agricoli) e l’eternità. Ogni festività aveva infatti una connotazione religiosa. La domenica (“giorno del Signore”), oltre a garantire il tradizionale riposo settimanale, consentiva l’osservanza del culto e l’istruzione religiosa. Le altre festività, che si erano spesso sovrapposte ad antiche feste pagane, rientravano per lo più nel calendario liturgico cristiano esaltando alcuni significati religiosi o proponendo il culto di Santi da imitare o da propiziare.

Le maggiori festività (Natale e Pasqua) sono state collocate una accanto al solstizio d’inverno, l’altra accanto all’equinozio di primavera consentendo al ciclo nascita-morte-rinascita della natura di essere letto come nascita-morte-resurrezione di Cristo.

In uno statuto di Brescia del 1245 vennero elencate ben 30 feste da rispettare (pena multa e prigione) oltre le domeniche: Annunciazione, Purificazione, Natività della Madonna, Assunzione, le ricorrenze di tutti i 12 Apostoli, Natale, S. Stefano, Circoncisione, Epifania, Triduo di Pasqua, S. Giovanni, S. Lorenzo, S. Giorgio, S. Apollonio, S. Filastrio, Ss. Faustino e Giovita, S. Maria Maddalena. Altre feste celebrate a lungo furono l’Invenzione della S. Croce, Natività di S. Giovanni Battista, S. Anna, Pentecoste, Ss. Innocenti, Madonna del Rosario e Ultimo dell’anno. Particolarmente sentita a livello popolare era, nel Basso Medioevo, la festa dell’Assunta il 15 Agosto, che a Brescia veniva celebrata con quattro corse cittadine (dei cavalli, degli asini, dei fanti, delle meretrici) dalla periferia ovest al centro della città richiamando molti spettatori anche dal contado e da varie località.

Alle ricorrenze religiose si sono poi aggiunte quelle civili, come il Primo Maggio, il 4 Novembre, il 25 Aprile, il 2 Giugno. Le festività riconosciute a livello nazionale sono state man mano ridotte, fino a stabilirne 9 nel 1977 (oltre a quella locale del santo Patrono), risalite poi a 11 negli anni successivi.

 I luoghi della festa, generalmente limitati alla chiesa e all’osteria, tendevano a dilatarsi nelle vie del paese, nelle cascine, nei campi. L’osteria, che si affollava e si animava soprattutto la sera del sabato e il pomeriggio della domenica, costituiva l’evasione dalla severa regola di vita e di lavoro. Con l’aiuto di un po’ di vino, delle carte da gioco, della morra, di un’atmosfera generalmente allegra e coinvolgente, si scioglievano per alcune ore le preclusioni e le gerarchie sociali e l’osteria diventava luogo di svago, di discussione, di apprendimento, di relazioni umane. L’osteria era anche il luogo in cui si diffondevano le nuove idee e si organizzavano scioperi, attività elettorali e partiti politici. A Roncadelle l’Osteria dei Porcellaga fu l’unico riferimento locale dal ‘300 al ‘600. Poi aprirono altre osterie, soprattutto nella Contrada di Sotto, ed i licinsì in ogni nucleo abitato.

Il complesso religioso sagrato-chiesa-cimitero rappresentava l’unità della comunità e le sue regole di vita; costituiva la “porta stretta” tra i campi della fatica terrena e quelli infiniti del cielo. Il sagrato era la cerniera tra lo spazio esterno, riservato alle attività profane, e quello sacro e raccolto della chiesa, e diventava spesso luogo di incontro e di discussione. La chiesa, capace di fornire una spiegazione totale del mondo e della vita, costituiva il polo centrale di ogni convergenza comunitaria e accompagnava ogni persona dalla nascita (battesimo) alla morte (funerale). La chiesa di riferimento per la comunità locale fu dapprima quella di S. Giulia (nell’attuale via S. Bernardino) poi sostituita, alla fine del Medioevo, dall’attuale parrocchiale. Il cimitero, rimasto fino al 1813 presso la chiesa, consentiva un legame costante e non solo simbolico tra i vivi e i morti della comunità. Un portico collegava probabilmente i tre spazi; mentre il campanile, oltre a scandire il tempo delle giornate ordinarie, conduceva la regia delle cerimonie festive.

In occasione delle processioni, che partivano e terminavano nella chiesa, lo spazio sacro veniva dilatato all’intero ambito abitativo e di lavoro: le case e le strade venivano addobbate con drappi colorati; le finestre e i balconi ornati con candelabri e lanterne. Considerate tra le più espressive manifestazioni della religiosità popolare, le processioni si svolgevano in occasione delle principali feste religiose o di avvenimenti straordinari. A volte avevano lo scopo di impetrare una grazia particolare o di esprimere un ringraziamento, come quella celebrata a Roncadelle nel 1815 e immortalata nel quadretto votivo della chiesetta di via S. Giulia. Particolarmente solenni e affollate erano le processioni del Corpus Domini (in giugno) e della Madonna del Rosario (in ottobre), cui soprintendevano le relative Confraternite locali, nonché quelle del Venerdì Santo e di S. Bernardino da Siena. La data del 20 maggio per quest’ultima viene rigorosamente rispettata anche se cade in giorno feriale, in memoria di quanto accadde quando si era stabilito di spostare la celebrazione per farla corrispondere alla domenica e consentire così una maggiore partecipazione popolare: si scatenò un temporale talmente violento che venne interpretato come un segno del Cielo. Prima della processione, ai lati delle vie interessate dal percorso, venivano piantati alti pali di legno che, uniti a coppie con addobbi artigianali, formavano una serie di archi ornamentali. Il corteo, che trasportava la statua e la reliquia del Santo, si fermava quando giungeva ad un incrocio viario importante o all’ingresso dei löch, dove sostavano alcuni bambini con tunichette bianche. Al termine della processione iniziavano i festeggiamenti “profani”: bancarelle, fuochi d’artificio e a volte le giostre.

Uno degli spettacoli più popolari nelle feste del passato era il teatro dei burattini, cui assistevano con eguale interesse adulti e bambini: i testi, piuttosto elastici, erano basati sull’uso del dialetto, con battute pesanti e frequenti randellate; non mancavano allusioni a fatti o personaggi della cronaca locale. Protagonista dello spettacolo, dall’inizio dell’Ottocento, era quasi sempre Giupì dei tré goss, espressione di popolano rozzo ma furbo, in cui molti si riconoscevano. Aveva un faccione rubicondo; era vestito di grosso panno verde orlato di rosso, pantaloni scuri da contadino e cappello rotondo con fettuccia volante; era figlio di Bortolo Söcalonga e Maria Scatoléra; portava con sé un bastone che usava spesso per far valere le sue ragioni e quelle dei più piccoli e degli oppressi.

Tra le feste civili ancora celebrate, la più antica è quella dei Lavoratori, che dal 1891 (salvo la parentesi fascista) si celebra il Primo Maggio. Nata per affermare i diritti dei lavoratori e la presenza politica delle masse operaie socialiste, la festa del Lavoro è riuscita a conservare un carattere laico nonostante il tentativo della Chiesa cattolica di sovrapporvi la ricorrenza di San Giuseppe lavoratore e viene oggi considerata il simbolo dell’unità di tutti i lavoratori. A Roncadelle era organizzata dai partiti di sinistra con discorsi, musiche popolari e inni tradizionali dei lavoratori, nonché balli fino a notte inoltrata. Un’altra festa civile nazionale, istituita nel 1946, è il 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo. A Roncadelle si è sempre celebrata con un corteo, che partiva tradizionalmente da via Martiri della Libertà (trattoria Stella), raggiungeva il Municipio, dove un oratore teneva il discorso celebrativo, e poi la chiesa parrocchiale, per concludersi con un pranzo sociale. I cortei, sia civili che religiosi, sono stati spesso accompagnati dalla banda musicale locale. Tra le ricorrenze civili proposte negli ultimi decenni, trascurando quelle che hanno un sapore prevalentemente commerciale, c’è la Giornata internazionale della Donna, fissata all’8 marzo, che in Italia si celebra dal 1946. Nata per rivendicare l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne, ha conservato una forte valenza sociale.

La comunità locale, a lungo divisa in contrade e in frazioni, non ha mai avuto una piazza; così, nella seconda metà del ‘900 sia la parrocchia che il Comune hanno dotato il paese di nuovi spazi di aggregazione, utili anche come riferimenti per feste collettive e per eventi culturali di vario genere. Anche le cascine, luoghi ordinari di vita e di lavoro, hanno offerto spazi comuni alle feste collettive: quando si terminavano lavori particolarmente impegnativi o in occasione di matrimoni, si imbandivano tavolate sotto il portico e, dopo il banchetto o durante gli intervalli, si intonavano canti corali o si avviavano balli sull’aia, con l’accompagnamento della fisarmonica, mentre i bambini giocavano intorno o sul fienile, finché non sopraggiungeva la notte.  

 

LE TRADIZIONI

 

Le tradizioni sono la memoria della cultura popolare e rappresentano l’identità di ogni comunità locale, che decide che cosa conservare o recuperare delle proprie peculiarità di ieri e che cosa lasciare disperdere dalle trasformazioni (sempre più rapide e profonde) di oggi. Molte tradizioni collettive sono legate a ricorrenze che derivano dal calendario agrario o liturgico e ad antiche consuetudini trasmesse di generazione in generazione.

L’antico calendario celtico fissava l’inizio dell’anno al primo giorno di novembre, poi diventato festa di Tutti i Santi. La tradizione irlandese di Halloween (“vigilia di Ognissanti”), esportata in America nell’Ottocento e tornata in Europa verso la fine del Novecento con valenza piuttosto superficiale, intendeva ricordare la possibilità per i vivi di incontrare il mondo dei defunti. La tradizione cristiana ha fissato al 2 novembre la commemorazione dei defunti. Il culto dei morti è rimasto sempre vivo anche nella comunità locale, testimoniato dai fiori che vengono costantemente deposti sulle tombe e dai numerosi offici funebri che vengono fatti celebrare. Il luogo delle sepolture, inizialmente situato presso la chiesa, dal 1818 è stato spostato nel cimitero in via Marconi (allora via della Chiesa). In passato si usava trascorrere la sera della ricorrenza dei morti raccogliendosi intorno al focolare, recitando il rosario e mangiando castagne lessate o abbrustolite.

Sempre in novembre, la ricorrenza di San Martino è stata a lungo considerata l’inizio del ciclo invernale e giorno di scadenza dei contratti agrari e delle locazioni; per cui era facile assistere in quel giorno al passaggio di carretti carichi di povere masserizie e di famiglie che si trasferivano da una cascina all’altra, tanto che l’espressione dialettale fa’ sanmartì ha assunto il significato di traslocare.   

Una data molto attesa, soprattutto dai bambini, è ancora oggi quella del 13 dicembre, dedicata a Santa Lucia, una ragazza cristiana di Siracusa martirizzata nel 304, la cui salma venne trasferita a Venezia nel 1204. Il suo culto si diffuse nel bresciano nel corso del ‘400, quando la notte di Santa Lucia era “la più lunga che ci sia”, corrispondendo effettivamente, per un errore del calendario giuliano, al solstizio d’inverno (che nel 1582 venne riportato correttamente al 21 dicembre). Da oltre 500 anni la sera della vigilia i bambini corrono a letto dopo aver preparato un po’ d’acqua e di farina (o di fieno) per l’asinello che tradizionalmente accompagna la santa e si addormentano pieni di speranza e di timore, tenendo gli occhi ben chiusi sapendo che la santa, per non essere vista, potrebbe gettare cenere nei loro occhietti curiosi. Svegliandosi al mattino, i bambini esultano di gioia trovando i doni richiesti e qualche dolcetto. A Roncadelle la santa è rappresentata in una tela della parrocchiale con un vassoio contenente i suoi occhi che, secondo la leggenda, le furono cavati durante il martirio.

La quasi completa sospensione delle attività agricole nel periodo invernale consentiva alle famiglie contadine di riunirsi spesso la sera nelle stalle. In queste “veglie”, sotto l’avara luce di un lumicino ad olio e al tepore naturale degli animali, le donne, gli uomini e i bambini partecipavano a momenti di intensa vita comunitaria, dove si svolgevano piccole attività lavorative (filatura, ricamo, lavori a maglia da parte delle donne; fabbricazione di oggetti di legno o lavori di intreccio da parte degli uomini) e attività ricreative o culturali: canto in coro, narrazione di “storie” o di esperienze personali, discussioni su argomenti di attualità, ma anche recitazione di drammi, letture di libri, preghiera collettiva. E non mancavano battute, scherzi e risate. Nella stalla cominciavano spesso i corteggiamenti degli innamorati, sotto gli occhi vigili degli adulti. Riunendo una piccola comunità, la veglia svolgeva anche l’importante funzione di trasmissione culturale da una generazione all’altra.

In dicembre si usa allestire il presepe o presepio, che ha origini medievali, ma che solo nel corso del ‘900 si è diffuso in quasi tutte le case, realizzato per lo più dai ragazzi con l’aiuto dei genitori. Per favorirne la diffusione, molte parrocchie (compresa quelle di Roncadelle) dagli anni ’50 indicevano concorsi per premiare i più meritevoli. Si trattava allora di composizioni fatte con materiali poveri: statuine di gesso, muschio, ghiaia, cortecce di alberi, casette di sughero o di compensato, come anche il minaccioso castello di re Erode; non mancava un ruscello di carta stagnola o un laghetto realizzato con uno specchietto; il tutto era reso suggestivo da lucine colorate, spesso intermittenti; per creare l’effetto neve bastava una spruzzata di farina bianca. Gesù Bambino veniva posto nel suo giaciglio di fieno la notte di Natale; mentre i re Magi comparivano più tardi con i loro cammelli, magari da un angolo di deserto realizzato con due manciate di sabbia o di farina gialla. Insieme al presepe si sono andate diffondendo anche usanze più laiche, di origine nordica, come l’addobbo di un abete e l’arrivo di Babbo Natale come latore di doni, nonché il vischio e l’agrifoglio come augurio di pace e fortuna.  

Nel Medioevo si attendeva il Natale con una veglia notturna, che terminava con la prima messa natalizia. Ora la vigilia si conclude con la messa di mezzanotte. Dopo il “cenone” con l’immancabile anguilla e la mostarda, si possono ascoltare alcune melodie natalizie cantate da qualche coro o suonate da zampognari in cerca di offerte. In passato la venuta del Redentore era salutata anche da spari (con mortaretti o fucili da caccia) e falò, poi sostituiti a Roncadelle da distribuzioni di vino brulé. In alcune cascine si mantenne a lungo l’antica usanza del caidù: nell’aia veniva apprestata una catasta di legna, a cui i poveri potevano attingere per riscaldare le case.

Falò, spari e frastuono caratterizzano da sempre alcune feste invernali, dall’arrivo del Capodanno alla festa di S. Antonio Abate, al Giovedì Grasso. Si tratta di un rito apotropaico, che intende scacciare gli elementi maligni e annunciare una nuova rinascita. È anche il periodo in cui si usa celebrare il “mondo alla rovescia”, dove si ribaltano le convenzioni e le gerarchie sociali e si rappresenta la resistenza della cultura popolare alla omologazione imposta dalle istituzioni e dal potere.

Il Carnevale è una delle tradizioni collettive più antiche, le cui radici affondano nella notte dei tempi. Oggi ridotto a semplice mascherata o sfogo giovanile, il Carnevale rappresentava anticamente un breve e necessario periodo di disordine, di libertà sfrenata, di capovolgimento dell’ordine sociale e morale. A Carnevale ognuno perdeva identità, i ruoli venivano invertiti e la festa collettiva si trasformava spesso in trasgressione e violenza. Avendo resistito ai vari tentativi di addomesticazione da parte delle istituzioni civili e religiose, il Carnevale è rimasto un rito dissacrante e liberatorio, dove le regole sociali vengono momentaneamente sospese e ogni scherzo o scherno viene tollerato; dove si è conservata l’usanza dei travestimenti e delle burle; dove si mettono alla berlina i personaggi più in vista del momento e i simboli più odiati. A Roncadelle si celebra con un corteo mascherato per le vie del paese, a volte accompagnato da gioiose e fantasmagoriche sfilate di carri allegorici, mentre alcuni ragazzi si divertono a schizzare schiuma e a roteare manganelli di plastica.

Il lungo periodo quaresimale imposto dal calendario liturgico cristiano, che prevede quaranta giorni di astinenze (sempre meno rispettate), viene interrotto dal Giovedì Grasso di metà Quaresima, che prevede l’allestimento del rogo pubblico della “Vecchia”, spesso accompagnato dalla lettura di un burlesco e graffiante “testamento” e dalle risate dei presenti. La ècia rappresentava forse l’inverno, il buio, il freddo, la sterilità, il male, contro cui il povero contadino non aveva altra difesa che l’esorcismo e affidava al fuoco il compito di distruggere o purificare tutto ciò che era nocivo. A Roncadelle lo spettacolo è stato allestito negli anni Sessanta e Settanta nello spiazzo al confine tra Roncadelle e Castelmella con le maschere in cartapesta realizzate con arte da Italo Comini. Poi la Vecchia è stata innalzata e bruciata davanti al castello Guaineri o presso l’Oratorio, il più importante centro di aggregazione locale.

Collegate in qualche modo al periodo quaresimale si sono tramandate due devozioni: le Quarantore e il Triduo dei morti. La prima, nata a Milano nel 1527 per onorare il tempo che Gesù trascorse nel sepolcro secondo i Vangeli, consisteva nell’adorazione del Ss. Sacramento per 40 ore consecutive e prevedeva l’esposizione dell’ostensorio su un tronetto affiancato da ceri e candelabri, la presenza di un valido predicatore ed una processione o forme penitenziali comunitarie. La devozione intendeva affermare la presenza reale del corpo di Cristo nell’ostia consacrata. Nel tempo l’intero altare maggiore si è andato addobbando di luci e fiori, fino alla costruzione di “macchine” scenografiche ispirate a quelle allestite in occasione dell’arrivo di importanti autorità religiose o civili. Strutture simili furono allestite anche per i Tridui dedicati al suffragio dei defunti, una devozione nata a Brescia nel 1716, dopo la guerra di successione spagnola, che aveva interessato anche Roncadelle e comportato molte vittime in territorio bresciano. La “macchina del Triduo” era un apparato effimero in stile barocco, generalmente in legno dorato, illuminato da centinaia di candele, al cui centro era collocato l’ostensorio. La devozione intendeva affermare la validità delle preghiere di suffragio per le anime del Purgatorio, in opposizione alla teologia protestante. A Roncadelle esisteva già all’inizio del ‘700 una “macchina” per l’esposizione del SS.mo, con due “scalinate depinte, un pavione depinto che copre tutta la larghezza del choro, legnami ferri e corde per tener in piedi detto pavione, un baldacchino grande sopra detto pavione con sue mazze e franze, 2 tele depinte a fiorami, 2 banchette a scalini depinte”.

Terminata la Quaresima (e la stagione fredda), il Giovedì santo si procedeva alle grandi pulizie della casa, che dopo qualche giorno veniva anche benedetta. Mentre le donne facevano brillare i loro recipienti di rame al sole e si dedicavano alla bügada, i ragazzi si occupavano della pulitura delle catene del focolare trascinandole lungo e di corsa lungo le strade e sui sassi per liberarle dalle incrostazioni di fuliggine accumulate durante l’inverno e lucidandole poi minuziosamente. Il Venerdì santo è legato alla devozione della Via Crucis, una ricostruzione del tragitto compiuto da Gesù a Gerusalemme nell’ultimo giorno della sua vita, con 14 tappe o “stazioni” su cui meditare. Nel pomeriggio i ragazzi usavano rumoreggiare con le sgrésaröle (raganelle di legno) e la sera si svolgeva una solenne processione con la statua del Cristo morto o una rappresentazione della Passione di Gesù.

A Pasqua, festa della Resurrezione, si preparavano le uova sode che le galline, con la bella stagione, erano tornate a deporre in buon numero; e si faceva sfoggio dell’abito nuovo, che doveva poi durare per diversi anni. Tali usanze, chiaramente legate al cambiamento di stagione, rappresentavano l’esigenza di un rinnovamento interiore ed esteriore, in sintonia con la rinascita della natura. Il pranzo pasquale tradizionale era a base di casonsèi, capretto e insalata novella; come dolce, nel Novecento si è diffusa l’usanza della colomba pasquale e dell’uovo di cioccolato, spesso contenente qualche sorpresa, per la gioia dei grandi e dei bambini. Anche il pranzo all’aperto del lunedì dell’Angelo, un vero e proprio pic-nic a base di uova sode, salame e capulì, si ricollegava agli antichi riti primaverili e simboleggiava la riconciliazione con la grande madre terra dopo la lunga stagione invernale.

Un’altra tradizione primaverile era quella delle Rogazioni, processioni propiziatorie mattutine verso i confini del paese e dei campi coltivati, con soste alle santelle, derivate dall’usanza pagana di rimarcare i confini del territorio e di invocare la protezione di Cerere sulle messi. Spesso si procedeva anche a solenni benedizioni della campagna allo scopo di proteggerla dall’insulto della tempesta, della siccità, dei parassiti, contro cui i contadini si sentivano impotenti.

Il legame con il territorio, fonte di sopravvivenza e di identità per la comunità locale, era molto sentito e per la sua difesa si era disposti a tutto. Anche i ragazzi prendevano a pretesto la difesa dei confini territoriali per ingaggiare vere e proprie sassaiole contro i ragazzi delle località vicine. Molte “battaglie” si combattevano sul greto del Mella contro i ragazzi di Castelmella. Un’accesa rivalità esisteva tra le stesse contrade di Roncadelle, che giungeva ad impedire che un giovane di una contrada potesse frequentare una ragazza dell’altra contrada.

Una simpatica tradizione, che si è andata perdendo, era la “barca di san Pietro”. La notte della vigilia di S. Pietro si usava versare l’albume di un uovo in una bottiglia d’acqua, che si metteva a riposare in giardino o sul davanzale. Sfilacciandosi l’albume assumeva “miracolosamente” la forma di una barca a vela o di una rete, simboli del mestiere esercitato dal capo degli apostoli.

In agosto, oltre alla festa dell’Assunta, in passato si celebrava solennemente la ricorrenza di San Rocco, a lungo invocato come difesa dalle pestilenze e considerato vice-patrono della parrocchia di Roncadelle. È stato rappresentato nelle due successive pale dell’altar maggiore, oltre che da una tela del 1643 fatta eseguire da padre Ludovico Porcellaga per la chiesetta di Villanuova (ora scomparsa), nonché da una statua in legno di Gualfredo Sughi del 1836.

L’8 settembre, per antica tradizione, molti roncadellesi si recano alla Madonna del Boschetto della vicina Onzato, una chiesetta campestre eretta nel sec. XII forse sulle rovine di un tempio romano dedicato al dio Silvano in un bosco già sacro ai Galli Cenomani.  E un mese dopo, il 7 ottobre, ricorre la Madonna del Rosario, che celebra una pratica religiosa molto cara a gran parte della popolazione. Il Rosario, che consiste nella ripetizione dell’Ave Maria, ossia del saluto che, secondo il Vangelo, l’angelo rivolse alla vergine Maria, unito alla benedizione di Elisabetta. Introdotto nel sec. XII per i monaci illetterati che non riuscivano ad imparare i 150 salmi della Bibbia, venne poi adottato come forma di preghiera popolare con l’aggiunta, alla metà del ‘300, della seconda parte (il “Santa Maria”). La diffusione del Rosario venne favorita dopo la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), nella quale i cristiani sconfissero la flotta turca. A Roncadelle ebbe grande impulso grazie alla Schola o Confraternita del S. Rosario, sorta nel 1609 per iniziativa del padre domenicano Massimo da Verola; un altare della parrocchiale venne allora dedicato alla Madonna del Rosario, alla quale si usava donare ornamenti preziosi e alla quale si dedicava ogni anno una solenne processione.

Un’utile tradizione ecologica è da oltre un secolo la Festa degli Alberi. Istituita a Roma il 21 novembre 1898 dal ministro Guido Baccelli, coinvolse sin dall’inizio i bambini delle scuole dell’obbligo e servì sia ad educare al rispetto della vegetazione, sia a piantare nuovi alberi. Istituzionalizzata con la Legge Forestale del 1923, la ricorrenza venne rilanciata nel 1951 ed ha mantenuto rilevanza nazionale fino al 1979, quando venne delegata alle Regioni. Nel 1992 si stabilì che ogni Comune italiano dovesse mettere a dimora un albero per ogni neonato registrato all’anagrafe e dal 2013 la ricorrenza è diventata “Giornata nazionale dell’Albero”, dedicata ogni anno ad uno specifico tema. L’Amministrazione comunale di Roncadelle sostiene da tempo questa tradizione ed il paese è diventato uno dei centri abitati maggiormente dotati di verde pubblico.

Roncadelle non ha coltivato in passato una sua tipica tradizione; negli ultimi decenni sono state proposte manifestazioni continuative di un certo interesse e richiamo: Riviste di teatro e danza, Palio delle Contrade, Concerti in Castello, Roncola d’Oro, Roncadelle in fermento, ecc. La più longeva delle nuove manifestazioni è il “Mercatino del Tempo che fu”, nato nel maggio 1993 per iniziativa di Giuseppe Chizzolini, che vanta 300 espositori e continua a richiamare visitatori da varie località. Le numerose associazioni locali di volontariato e i nuovi spazi di aggregazione si propongono comunque come tessuto connettivo della comunità, in grado di salvaguardare i valori perenni trasmessi dalle vecchie tradizioni rinnovandone il significato e la ricchezza culturale.

 

                                                                                                                              G. Luigi Vernia   

                 
 

Feste e Tradizioni locali
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Data pubblicazione: 
Venerdì, 27 Marzo, 2015
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