CACCIA

Mercoledì, 9 Aprile, 2025 - 16:15
Ufficio: 
Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Mercoledì, 9 Aprile, 2025
Area Tematica: 

Una delle più pronunciate inclinazioni de’ bresciani è in generale quella della caccia, lo che devesi attribuire principalmente alla posizione della provincia, la quale presenta grande opportunità ad ogni sorta di caccia, ed in ispecie a quella degli uccelli”. Questa considerazione, scritta da un ispettore censuario di Como nel 1836, sottolinea sia la tradizionale passione venatoria di molti bresciani, sia la particolare posizione del territorio bresciano, che lo rende idoneo alle varie forme di caccia e, in particolare, alla cattura delle specie migratrici.

Principale attività di sussistenza per l’uomo preistorico, la caccia divenne nel tempo una pratica complementare all’agricoltura e all’allevamento e, infine, una sorta di sport e di divertimento, riservato ai nobili e poi aperto a chiunque, nel rispetto di regole sempre più stringenti.

 

Il territorio di Roncadelle si è sempre prestato alla cacciagione anche per la lunga permanenza di zone boschive, selvose e “lamive”. Con la centuriazione (v.) romana e l’affermazione del diritto di proprietà privata, la caccia locale cominciò a risentire di alcune limitazioni. La selvaggina, ritenuta “res nullius” (cosa di nessuno), non poteva essere considerata di proprietà di chi possedeva il terreno su cui si trovava, ma il proprietario aveva il diritto di opporre a chiunque il divieto di cacciare sulle sue terre. La caccia era comunque libera per tutti, salvo che per gli schiavi, che potevano solo “occupare” gli animali per conto del loro padrone.

Con le cosiddette invasioni barbariche, dovettero confrontarsi due mentalità diverse: mentre la cultura latina o mediterranea era legata soprattutto alla produzione agricola, le popolazioni germaniche o nordiche, a prevalente economia silvo-pastorale, affermarono la loro predilezione per la caccia e per il culto di alcuni animali.

In epoca longobarda alcuni territori, come quello di Roncadelle, vennero destinati a riserva di caccia per il duca bresciano o per il re. Queste aree, per lo più boschive, erano pertanto precluse all’uso comune e chiunque avesse violato la proibizione di accedervi per cacciare veniva messo al bando.

Con l’attenuarsi del potere regio, si accentuò poi l’autorità dei feudatari e dei vassalli, compreso il vescovo-conte di Brescia, che limitarono fortemente la libertà di caccia.

Durante l’epoca dei Comuni le restrizioni si attenuarono, ma la caccia venne sottoposta, per questioni di pubblico interesse, ad alcune limitazioni circa i modi e i tempi del suo esercizio. Solo nei confronti di orsi e lupi venne concessa libertà di caccia, considerando la loro pericolosità per la popolazione. Normalmente ai contadini e al popolo “basso” veniva lasciata la caccia a lepri, conigli, volpi, martore, tassi e agli uccelli (senza piume rosse), mentre ai signori veniva riservata la caccia ai cervi, ai camosci, ai castori, ai fagiani. Rispettate erano le cicogne e le rondini, che servivano a distruggere gli insetti (v. Statuti di Brescia del 1313).

Durante il dominio veneto la caccia, pur liberalizzata, rimase privilegio dei ricchi, che la praticavano soprattutto per divertimento. Buona parte di loro si dedicava alla caccia grossa servendosi di varie specie di cani. Gli uccelli venivano fatti ghermire spesso da aquile, avvoltoi, astori, sparvieri, falconi. Ma la pratica più diffusa era l’uccellagione, che ebbe anche una certa incidenza economica. Si hanno notizie di roccoli in Val Trompia dalla prima metà del ‘400, ma nel Seicento non vi era famiglia nobile che non avesse roccoli o uccellande nei propri possedimenti. Interessante risulta, a questo proposito, la dettagliata descrizione che Agostino Gallo fece del roccolo dei Porcellaga (v.) a Roncadelle dopo aver assistito ad una giornata di caccia (intorno al 1560) dei fratelli Gerolamo e Ludovico:

Per un giorno vidi questo giuoco de’ nobili duoi fratelli Porcelaghi a Roncadelle, il quale non ha pari a questo paese: percioche vi sono duoi belli e grandi arbori (cioè una quercia e una noce) lontani l’un dall’altro cavezzi venticinque, accompagnati col filo d’una lunga onizzata non molto alta. Onde, essendovi tirate due reti lunghe innanzi giorno da i servitori, e posto in cima de gli arbori le pertichette fornite di bacchettine invischiate ne i buchi de canternoli, e sotto due civette con più tordi ingabbiati, non essendo ancora comparso il Sole, Messer Hieronimo cominciò a sonare talmente il zufolo, che per tre hore e più, mai non cessò, andando hor qua, or là con variare sempre le voci assomigliando hor’a i tordi e hor’a i merli… Sappiate poi che questo gentil’huomo ne pigliò cento sessantaduoi. Et meravigliandomi di tanta presaglia, mi disse haverne preso il giorno avanti duecento vintisei.” (v. A. Gallo, “Le tredici giornate della vera agricoltura & de’ piaceri della villa”, p. 294).

Anche i Guaineri (v.) di Roncadelle praticavano l’uccellagione nella tenuta di Villa Nuova. Da un diario di caccia del 1599-1629 (conservato nell’archivio di famiglia) apprendiamo che Luigi Guaineri si dedicava all’uccellagione da metà settembre alla fine di ottobre, durante la passata dei tordi, mentre suo fratello Pietro, che preferiva le allodole, proseguiva fino a metà novembre. Si avvalevano quasi sempre dell’aiuto di uno o due uccellatori e utilizzavano le reti e “la rovere”. I risultati erano generalmente buoni: mediamente oltre 1.400 tordi ogni stagione nel primo decennio del ‘600, oltre 1.100 nel secondo e 800 nel terzo. La punta massima giornaliera, 355 tordi, venne realizzata il 16 ottobre 1606 e fu commentata da un’unica parola: “miracoli”. Le “sarlóde” (allodole) prese dal fratello Pietro erano alcune centinaia all’anno, ma il conteggio è riportato solo saltuariamente, Nelle reti, oltre a “spinarde” (sasselli) e “gardene” (tordelle), incappavano anche altri uccelli come “arcie” (beccacce), merli, “galbedri” (rigogoli), stornelli, gazze, civette, pernici, frisoni, allocchi, quaglie, ecc. Talvolta i fratelli Guaineri davano la caccia con la “levadora” agli uccelli acquatici, che in quella zona, molto vicina al Mella, non mancavano certo: “becadèi” (beccaccini), “sguanni” (pavoncelle), ecc.

Quanto agli strumenti utilizzati allora per la caccia, molto diffusi erano i lacci, le reti e le trappole; ma si usavano anche le balestre, che vennero poi sostituite da armi da fuoco portatili. Dal 1740 cominciarono a circolare fucili fabbricati specificatamente per la caccia (Cominazzi, Francino, ecc.).

La Rivoluzione francese proclamò il principio che ognuno aveva il diritto di esercitare la caccia, ma non nei terreni di proprietà altrui. Preminenti esigenze di pubblica sicurezza, di rispetto delle produzioni agricole e della conservazione della selvaggina imposero restrizioni e divieti di tempi, di luoghi, di mezzi e di specie cacciabili. L’esercizio venatorio venne inoltre sottoposto al rilascio di apposita licenza e al pagamento del relativo contributo.

Nella legislazione del Lombardo-Veneto la caccia e l’uccellagione erano consentite dal 1° luglio al 15 aprile successivo. Erano permessi i lacci, le trappole, i trabocchetti e altri mezzi insidiosi, nonché la caccia notturna e sulla neve. Nel 1836 vennero censiti nel bresciano 2.080 tra roccoli, passate, tese e copertoni, oltre a 315.000 archetti. Oltre alle varie forme di reti, si faceva grande uso del vischio, di lacci, trappole, ceppi, tagliole, armi e sostanze inebrianti, che testimoniano della fantasiosa capacità umana volta a catturare selvaggina (stanziale e da passo), sia per sostentamento che per divertimento.

La caccia era esercitata, oltre che in forma vagante o da appostamenti attivati sul momento, soprattutto da migliaia di appostamenti fissi, tradizionalmente legati all’utilizzo di richiami vivi esposti nei pressi della posta e all’esistenza di roccoli. Nel 1857 l’on. Zanardelli denunciava la vendita nel Bresciano di 600.000 uccelli piccoli all’anno, che 50 anni dopo erano saliti a 4 milioni.

La caccia si era andata sviluppando nei ceti popolari dalla seconda metà dell’Ottocento. Senza tener conto dei molti bracconieri allora operanti, nel 1872 vennero rilasciate nel Bresciano 3.789 licenze di caccia (354 con le reti, 3.435 col fucile), che un secolo dopo diventarono 53.000. Con l’incremento dei cacciatori, aumentò anche l’antico conflitto tra loro e i proprietari o i conduttori di fondi agricoli. E crebbe anche la necessità di regolamentare e unificare l’esercizio venatorio in tutta Italia, cui provvide la Legge 1420 del 24 giugno 1923, poi integrata con la Legge 117 del 15 gennaio 1931, e soprattutto il Testo Unico sulla caccia approvato con R.D. n. 1016 del 5 giugno 1939. Queste leggi introdussero, tra l’altro, alcuni istituti tipici quali le bandite, le zone di ripopolamento e le riserve di caccia. Venne previsto anche il terreno libero, dove chiunque poteva cacciare senza il permesso del proprietario del fondo, superando così un antico diritto dei proprietari terrieri (sancito dal Codice Civile del 1865): l’art. 842 del Codice Civile del 1942 stabilì infatti che il proprietario di un fondo non potesse impedire ai cacciatori di entrarvi, a meno che il fondo fosse chiuso nei modi stabiliti dalla legge o vi fossero coltivazioni suscettibili di danno. Questa disposizione, ritenuta da molti un privilegio a favore dei cacciatori, venne poi contestata a lungo dalle nuove sensibilità ambientali, anche attraverso tentativi referendari, nonostante i cacciatori cercassero di dimostrare che erano in prima linea a rispettare l’ambiente e la conservazione della fauna.

Nel secondo dopoguerra si costituì la Federazione Italiana della Caccia (F.I.d.C.), ancora oggi la più forte associazione venatoria, che sostituì la Federazione fascista Cacciatori. A Roncadelle negli anni Ottanta vi erano circa 200 cacciatori, iscritti per lo più alla Federcaccia o ad altre associazioni minori (Libera Caccia e Arcicaccia).

La legge-quadro n. 968 del 1977 (recepita dalla Regione Lombardia con L.R. 47 del 31 luglio 1978), oltre a stabilire che la selvaggina fa parte dei beni indisponibili dello Stato, ha vietato l’uccellagione e introdotto uno stretto legame cacciatore-territorio, funzionale ad una gestione faunistico-venatoria a carattere sociale, con crescenti limitazioni di tempo, di luogo, di specie e di numero di capi prelevabili. Il decreto legge del 13 giugno 1982, anche su sollecitazione dei movimenti ambientalisti, ha poi cancellato dall’elenco delle specie cacciabili diverse tipologie di volatili.

L’esigenza di recepire le direttive europee in materia di tutela della fauna selvatica, con particolare riguardo alle specie migratrici, ha trovato risposta nella legge-quadro n. 157 dell’11 febbraio 1992, che ha ridisegnato gli ambiti di caccia del territorio e fissato i criteri della programmazione venatoria affidata alle Province. Dalla “caccia controllata” si è approdati così alla “caccia programmata”, con cui si cerca di conciliare l’antico conflitto tra cacciatori e proprietari fondiari e di salvaguardare le specie faunistiche a rischio di estinzione.

Ma il venir meno dell’uccellagione classica, la drastica riduzione delle specie cacciabili, l’aumento progressivo delle tasse e degli oneri legati all’esercizio venatorio, hanno praticamente dimezzato negli ultimi decenni il numero degli appostamenti fissi in territorio bresciano e il numero complessivo delle licenze di caccia. Per quanto riguarda Roncadelle, il numero degli iscritti alla Federcaccia si è ridotto ad una trentina e l’ambito di caccia locale è limitato al territorio a sud della strada di S. Giulia dalla roggia Mandolossa al laghetto di pesca.

Le disposizioni della Regione Lombardia e della Provincia di Brescia in materia cercano di trovare un difficile equilibrio tra le esigenze di salvaguardia della fauna e dell’ambiente e le istanze dei cacciatori, che costituiscono ancora un ampio bacino elettorale.

 

 

Galleria: