CASTELLO

Non è più un castello da almeno tre secoli l’attuale palazzo Guaineri di Roncadelle, ma per la popolazione locale è sempre rimasto “il castello”, conservando all’antica struttura quel pizzico di misterioso fascino e di ammirato rispetto che il termine riesce ancora ad evocare.
Il castello ha più di sei secoli di vita. Pur non avendo mai svolto un ruolo militare o difensivo importante, ha sempre conservato dominanza e prestigio sul territorio locale e rappresenta uno di quei fenomeni globalizzanti, che ben si prestano ad una ricostruzione organica del passato, grazie alle profonde connessioni esistenti tra la sua presenza e la gestione politica ed economica del territorio circostante. Il castello ha avuto infatti un’importanza determinante nella storia di Roncadelle essendo stato, di volta in volta, rifugio offerto alla popolazione locale e strumento di dominio su di essa, motore dell’attività economica e freno alle libertà civili, condizionamento per la vita sociale (e religiosa) locale e centro di irradiamento di arte e cultura, simbolo di oppressione feudale e bandiera del movimento di Liberazione. Le vicende del castello e dei suoi proprietari si sono intrecciate a tal punto con quelle della comunità locale da formare, per alcuni secoli, un’unica storia.
Origine. Alla fine del ‘300 i Porcellaga (v.) dovevano gestire molti interessi a Roncadelle: oltre ai terreni (circa 400 piò), avevano realizzato una seriola, un’osteria, una “rassega” (segheria), una fornace e poi un mulino; ma soprattutto avevano ottenuto dai Visconti l’investitura per la gestione dei “saletti” lungo il Mella e per la riscossione dei dazi sul territorio locale, con l’implicita possibilità di tenervi uomini armati. Fu allora che decisero di realizzare un castello per proteggere i loro beni e per affermare anche visibilmente il loro dominio su Roncadelle.
Antonio e Marco Porcellaga, figli di Pecino, ne idearono la costruzione sopra un terreno leggermente preminente di circa un piò, situato tra la strada di Orzinuovi a sud e l’antica corte di S. Giulia a nord, tra il corso della roggia Mandolossa ad ovest e il Mella ad est. Dopo che, nel 1410, la concessione ai Porcellaga relativa ai dazi e ai “saletti” divenne perpetua, il progetto diventò ancora più opportuno e venne realizzato dai quattro figli di Marco Porcellaga, che ne furono i primi proprietari.
Il castello, costantemente chiamato “castrum” nel ‘400, si presentava come una struttura fortificata, circondata da un fossato e da muraglie e dominata da un’alta torre sull’angolo nord-occidentale. La torre era chiamata “colombaia” perché la parte superiore era adibita a tale funzione per ricavarne vantaggi alimentari (uccelli e uova) e concime naturale utilizzato come fertilizzante. La funzione difensiva del castello rimase molto limitata, anche perché le autorità bresciane non avrebbero potuto consentire che all’interno delle Chiusure (v.) sorgesse un vero fortilizio, che in mano nemica avrebbe costituito una pericolosa spina nel fianco per la città. Così, in caso di avvicinamento minaccioso di forze militari o comunque organizzate, la popolazione locale preferiva rifugiarsi dentro le solide mura di Brescia.
Dalla descrizione fatta nel 1435, in occasione della suddivisione dei beni tra i fratelli Porcellaga, sappiamo che il castello comprendeva quattro abitazioni separate e vari fienili e portici intorno ad un ampio cortile interno; l’ingresso era sul lato ovest, accanto al quale vi era un ricetto e un brolo. Il castello era dotato di un pozzo coperto, un forno per il pane e un torchio per la produzione di vino. L’acqua del fossato derivava da due polle sorgive situate nel lato nord.
La stabilità politica garantita dal governo veneto consentì di non potenziare gli elementi difensivi e di utilizzare diversamente il ricetto, che divenne poi un “cortivo per due massari e patrone”, mentre il castello fu adibito essenzialmente a magazzino agrario e a residenza estiva dei Porcellaga. Ed è facile immaginare quanto la presenza dei proprietari potesse animare, per alcuni mesi all’anno, la vita del piccolo borgo: l’andirivieni di servitori, i cavalli, i fornitori, gli ospiti, le feste, le battute di caccia venivano a rompere la quieta monotonia delle giornate roncadellesi, scandite dai ritmi sempre uguali del lavoro quotidiano e dei riti festivi.
La graduale frammentazione della proprietà del castello a causa dei diritti ereditari venne superata da Gian Francesco Porcellaga (1458-1527), che tra la fine del ‘400 e i primi anni del ‘500, ne acquisì tutta la proprietà e la trasmise al figlio Galeazzo (1493-1537).
Centro di potere. La presenza del castello, ubicato a eguale distanza dalle due nascenti contrade, distinte e complementari, risultò determinante per lo sviluppo economico e demografico locale ed ebbe effetti aggreganti sia in relazione al tessuto sociale che a quello urbanistico.
Quale nucleo centrale della signoria locale, residenza di campagna dei proprietari, magazzino agrario permanente, riferimento amministrativo e culturale, sede di guardie private, il castello divenne il simbolo visibile e concreto del potere a Roncadelle. Dal castello partivano le disposizioni per i dipendenti; nel castello venivano prese decisioni che valevano spesso per tutta la popolazione locale; al castello pervenivano le scorte agrarie dai campi vicini ed i pagamenti dei vari fitti e livelli; il castello creava nuove opportunità di lavoro e sopperiva alle necessità nei momenti difficili.
La maggior parte degli abitanti locali viveva per lo più ai limiti della sussistenza. La beneficenza, che i Porcellaga e gli altri possidenti praticavano spesso “per la salvezza della propria anima”, riusciva ad allentare le tensioni sociali più acute. Periodicamente alcune some di miglio venivano destinate ai poveri “vergognosi” (disabili o disoccupati involontari) costretti a dipendere dall’altrui generosità. E ad alcune ragazze povere in età da marito veniva fornita la dote necessaria per il matrimonio.
Ospitando costantemente una piccola guarnigione di dipendenti, che in caso di bisogno faceva uso di armi, il castello divenne il principale riferimento per il servizio di vigilanza sul territorio locale, svolto prevalentemente lungo l’importante strada di Orzinuovi per consentire la riscossione dei dazi e la protezione dei “saletti” ed inevitabilmente esteso alla difesa di tutte le proprietà e attività locali dei Porcellaga. Inoltre, acquistando il giuspatronato (v.) sulla chiesa di S. Bernardino col diritto di nomina e revoca del curato, i Porcellaga nel primo ‘500 aumentarono ulteriormente il loro prestigio e potere sulla popolazione locale.
Il palazzo vecchio. Intorno alla metà del ‘500 i Porcellaga, giunti al culmine della loro parabola storica, vollero trasformare il castello in una dimora signorile, più rappresentativa del loro potere e della loro ricchezza. L’ala occidentale del castello venne così trasformata in palazzo abbattendo le precedenti strutture e conglobando quelle più solide, col sostegno tecnico di un Giampolo ingegnere di Brescia e con l’intervento del pittore Romanino (v.).
Ne risultò un edificio compatto e lineare, piuttosto imponente, a tre piani. Il pianterreno aveva locali con soffitto a volta, che svolgevano funzioni di servizio. Il piano superiore, cui si accedeva da una scala esterna, era composto da sale piuttosto ampie e luminose, comunicanti tra loro tramite porte allineate lungo la parete occidentale; sul piano vi erano anche una loggia, dove si poteva giocare a palla, e una loggetta rivolta ad ovest. Il secondo piano era occupato da stanze basse con finestre ovali, utilizzate forse come granai o come camere, sopra le quali vi era un sottotetto, ma un ripensamento successivo portò ad alzare il soffitto del piano nobile, che raggiunse la considerevole altezza di quasi sei metri, e ad aprire finestre quadrate nella soffitta in corrispondenza delle finestre sottostanti. Al centro dell’edificio si apriva un ampio ingresso, accanto al quale vi era una stretta pusterla per il passaggio pedonale, dotata di un trabocchetto: azionando una leva si apriva il pavimento di legno facendo precipitare i malcapitati nella buca sottostante.
La porta principale di accesso al castello divenne però quella aperta sul lato nord.
Anche gli edifici dell’ala orientale (una stalla, un porticato e alcune casette per la servitù) vennero riattati. In quel periodo vivevano in castello almeno 9 domestici: quattro servitori, tre donne di servizio e due cocchieri. Da un inventario del 1616 il castello risultava composto da circa 40 locali: oltre ad alcune “salette”, vi vennero citati un salotto, un tinello, la “farinera”, la cucina, la dispensa, la “caneva” e numerose camere da letto. Vi si trovavano mobili ed arredi di vario genere: tavoli in noce, panche di “paghera”, “cadreghe” o “scagne”, quadri, casse di legno e di “curame”, cofani, credenze, oltre a vari utensili e stoviglie. Ogni camera era dotata di “letiera di noce” o di “un paro di cavaletti con il suo fondo”, di “paliarizzo” o di “stramazzo di lana”, “capizzale” di pezza o di lana, “valenzana”, lenzuola e coperte, nonché di “orinale” per la notte. A volte c’era un “vestiario” alle pareti, un “oratorio dipinto” o dei quadri.
Gli affreschi del ‘500. Il rifacimento dell’ala occidentale, avviato da Sansone Porcellaga (1525-1559) e concluso dai figli Galeazzo, Carlo e Pietro Giuffredo, si poteva dire completato nel 1575. Le sale del piano nobile avevano pavimenti in cotto, finestre grandi e semplici, soffitti in legno divisi in scomparti da travi e travetti completamente decorati. Le porte interne, fiancheggiate da finte colonne dipinte sui lati e sormontate da finti busti di Cesari, apparivano quasi monumentali. E le pareti vennero affrescate con grandi dipinti, contornati poi da cartigli, e decorate con ampi fregi sulla fascia più alta.
Sono ancora visibili gli affreschi della stanza più a sud, che doveva essere la “camera da conto”, perché più ampia delle altre (m. 6x8 circa) e l’unica dotata di camino; mentre i dipinti della stanza accanto sono da tempo illeggibili, ad eccezione di una bella “Fuga in Egitto” affrescata in tempi successivi. La particolarità dei dipinti rimasti è che rappresentano soggetti religiosi: sulla parete sud vi è una “Nascita di Sansone annunciata dall’angelo”; sulla parte ovest, sopra il grande camino in pietra, “Giobbe che discute con gli amici e la moglie”; sulla parete nord, accanto alla porta interna, “Susanna e i vecchioni”; ad est completava la serie biblica un altro affresco, che venne poi mutilato irreparabilmente dalla realizzazione di una finestra verso il cortile interno.
Non era usuale affrescare le pareti di un’abitazione privata con soggetti religiosi, a meno che si trattasse di una cappella. Tale scelta può quindi trovare una spiegazione plausibile solo nelle vicende famigliari di quel periodo. Infatti, quando Galeazzo, il primogenito dei giovani fratelli Porcellaga, sulle cui spalle (dopo la morte del padre) si reggeva la responsabilità familiare, venne ucciso nel marzo 1573 e l’omicida (probabilmente di nobile e potente famiglia) rimase impunito, sembrò che il ramo Porcellaga fosse avviato all’estinzione. Pietro Giuffredo, pur avendo una vocazione religiosa, si sposò per dare continuità alla dinastia ma, quando la moglie Eliodora Bargnani morì dopo aver messo al mondo il figlio Sansone e due figlie, si fece frate cappuccino nel 1581 col nome di Giovanni Battista. E fu probabilmente lui, profondo conoscitore delle sacre scritture, che fece affrescare intorno al 1576 quelle scene bibliche, che illustravano esempi di umiliazioni e di ingiustizie subite e infine risolte, grazie alla fede, dalla giustizia divina.
Chi furono gli autori degli affreschi? Sappiamo che nel castello dipinsero nel 1575 il decoratore Stefano Rosa, collaboratore di Tiziano, e nel 1576 Pietro Marone, allievo del Veronese. Alcuni anni prima vi era stato chiamato il Romanino ad eseguire affreschi nella camera “a mattina”, ma la sua opera andò probabilmente distrutta un secolo dopo, oppure giace ancora sepolta da strati di intonaco.
Strumento di oppressione. Il castello rese la popolazione locale sempre più dipendente e ne condizionò inevitabilmente la vita civile ed economica, lasciando scarso spazio alle iniziative dei suoi abitanti e riaffermando (in certi periodi) indebiti e anacronistici diritti feudali. E il bisogno di sicurezza dei più deboli veniva agevolmente trasformato in dominio su di essi.
Come molti altri signori territoriali, alcuni Porcellaga tesero infatti a dilatare arbitrariamente i propri poteri imponendo ai contadini prestazioni gratuite od obbligando alcune ragazze ad allietare le feste in castello, come accadde in particolare nella prima metà del ‘600, quando l’eccessiva indulgenza delle autorità nei confronti dei signorotti locali e la facilità con cui questi potevano liberarsi delle condanne penali consentirono un diffuso dispotismo dei prepotenti.
I “bravi” o büli, di cui si circondarono gli ultimi Porcellaga, utilizzarono il castello per commettere ogni genere di sopruso e violenza, dall’omicidio allo stupro, dal sequestro di persona al furto in chiesa. “Con quelli sempre caminando, armati d’arcobusi longhi e corti”, Pietro Aurelio Porcellaga (1621-1656) figlio di Sansone e di Camilla Fenaroli, si rese colpevole di diversi delitti e abusi e fece del castello il proprio rifugio preferito e il simbolo dell’oppressione nei confronti della popolazione locale arrivando ad infliggere punizioni esemplari a quanti si opponevano, come accadde a don Pellegrino Lurani, fatto bastonare per aver osato criticare e riprendere il Porcellaga, ed a Cipriano Bonometti, ucciso sull’uscio di casa per essersi rifiutato di mandare una delle figlie alle feste in castello. Le fosche vicende, tramandate dalla tradizione popolare, di ragazze rapite e poi fatte scomparire, di drammi originati dalle brame di signori viziosi e prepotenti (così ben descritti dal Manzoni), non sono evidentemente frutto di fantasia, ma trovano il proprio fondamento nella memoria storica di angherie feudali realmente subite dalla popolazione.
Tutto questo finì nel 1647 con l’arresto e la condanna definitiva di Pietro Aurelio Porcellaga e l’uccisione di suo fratello Orazio detto “Sansone”.
Interessanti risultano le considerazioni dell’avogador Bragadin, mandato a Roncadelle da Venezia nell’aprile del 1647 ad assumere informazioni sulla vicenda dell’arresto del Porcellaga. Avvicinandosi al castello rimase meravigliato nel vederlo “circondato da una profondissima fossa de aqua corente, di larghezza de 12 in 14 bracia, con doi ponti levadori, con porte ferate, con alta e forte Torre recentemente accomodata et anco alzata, tutta perforata da Balestriere, che dominano in parte la campagna”. Il magistrato non riuscì ad entrare nel castello, avendo trovato “levati li ponti”, ma apprese da testimoni giurati che all’interno vi era “qualche pezzo di canóne” e fece subito notare alle autorità venete che “questa forma di fosse, ponti, torre et canón non è da suddito”.
Vi erano anche dei passaggi sotterranei, che pochi conoscevano e che, in alcune situazioni, si dimostrarono provvidenziali per la salvezza dei proprietari del castello.
Il Bragadin, per riuscire ad ottenere qualche prova testimoniale per il processo contro il Porcellaga, si mostrò molto energico e fece ricorso anche a forme di tortura, tanto grande e diffusa era tra la popolazione locale la paura del ritorno di Pietro Aurelio a Roncadelle, ma al processo a Venezia si recò infine un buon gruppo di testimoni.
Pietro Aurelio venne condannato e non poté più tornare a Roncadelle, dove aveva lasciato come unica erede la piccola Chiara Camilla, che visse nel castello insieme alla giovane madre Ippolita Averoldi e a Laura Maria, nata da una relazione extraconiugale del Porcellaga. Tra le tre donne si venne a creare uno stretto legame, quasi fossero consapevoli di essere in egual misura vittime delle prepotenze di Pietro Aurelio. Poi Laura Maria entrò in convento e Chiara Camilla nel 1659 sposò il giovane marchese Gaspare Giacinto Martinengo Colleoni (1641-1701). Da allora Roncadelle poté chiudere un capitolo doloroso e voltare pagina.
Palazzo Martinengo. La nuova gestione Martinengo Colleoni (v.) non si limitò a ripristinare la legalità troppe volte violata, ma favorì un rinnovamento morale con la scelta del nuovo curato, don Faustino Agosti, e attuò una radicale trasformazione degli edifici Porcellaga. Forse per compiacere la moglie, molto legata ai luoghi della propria infanzia, e forse anche per questioni di prestigio, vennero così trasformati il palazzo Porcellaga a Brescia, la chiesa parrocchiale (v.) di Roncadelle, la cascina di Antezzate (v.) e, naturalmente, il castello.
Dopo avervi realizzato una cappella privata dedicata all’Epifania, progettò la trasformazione del castello di Roncadelle in sontuoso palazzo residenziale composto da tre imponenti ali disposte ad “U” intorno ad un cortile rettangolare aperto sul lato sud (come riprodotto in un affresco del Merati su una parete interna dell’ala orientale). Ma si occupò anche del riassetto urbanistico dell’area intorno al castello. Infatti, a nord dell’ingresso principale volle creare una piazza e una larga via prospettica verso la chiesa parrocchiale, acquistando e facendo demolire alcune abitazioni, che ne impedivano la realizzazione, ed edificando poi, ai lati della piazza, da una parte la cavallerizza e il locale del torchio, dall’altra la scuderia e la rimessa delle carrozze.
All’interno del perimetro del castello, fece abbattere alcune vecchie costruzioni per edificare l’ala orientale dell’imponente progetto avvalendosi di consulenti tecnici locali e di diversa manodopera. Poi dovette ricorrere a tecnici dotati di grande capacità ed esperienza. Così si affidò a Gian Battista Croppi, che aveva fornito il progetto per la nuova parrocchiale e dirigeva i lavori per il palazzo di Brescia, e a Gian Battista Avanzi. Nel 1683 si arrivò al tetto, che venne ricoperto di “coppi”; nel 1685 vennero innalzati i pilastri del portico e nel 1690 cominciarono a d arrivare le pietre di medolo per i rivestimenti esterni. Tra i fornitori vi erano Scipione Ogna detto Maffei di Rezzato per i marmi, Andrea Spagnoli per i “quadrelli” e i “tavelloni”, Francesco Faitino per le lesene di marmo.
Purtroppo non mancarono incidenti, anche gravi, sul lavoro: nel 1692 i libri parrocchiali registrarono la morte di “Gioseffo d’anni 16 incirca […] caduto dalla fabrica del M.co Sig. Marchese Martinengo”, e quella di Bartolomeo Ambrosino Milanese “lavorando da muratore ad Antezzato dal M.co Sig. Marchese”.
La costruzione dell’ala orientale del palazzo, attuata a più riprese, poteva dirsi sostanzialmente ultimata all’inizio del ‘700. Ne risultò un edificio imponente e massiccio, la cui facciate esterna, compatta e lineare, presentava sessanta aperture distribuite sui quattro piani, mossa solo da due accenni di torrioni ai lati e da un balcone centrale in pietra. Le finestre del seminterrato erano ricavate nello sperone rivestito di marmo alla base dell’edificio; quelle del pianterreno vennero contornate da eleganti stipiti in pietra sormontati da visi scolpiti e munite di inferriate; mentre le finestre del primo piano furono dotate di sola mensola in marmo con decorazioni barocche e quelle del solaio rimasero spoglie sotto il semplice cornicione. La facciata interna era arricchita da un porticato di sette luci con pilastri in pietra bugnati, sopra il quale venne realizzata una galleria (usata anche come cavallerizza) cui si accedeva tramite una rampa in legno.
Come elementi di difesa, vennero ricavate delle feritoie nelle pareti esterne dei torrioni e piazzati due piccoli cannoni sotto il ponte levatoio. Il cortile interno, innalzato di oltre due metri, rese seminterrati i locali di servizio al pianterreno nel palazzo nuovo, ma anche in quello vecchio, al cui centro venne aperto un grande adito con scalone di marmo.
I locali sotterranei del nuovo palazzo comprendevano una cucina dotata di camino e forno, una dispensa, una stanza con un pozzo coperto e un grande lavello, una stanza con un torchio in pietra per la produzione del vino ed altri scantinati.
Ma chi aveva avviato l’ambizioso progetto di trasformazione del castello non poté vederlo ultimato. Chiara Camilla, dopo aver messo al mondo tredici figli (pochi dei quali le sopravvissero) morì nel 1698, a soli 54 anni, e volle essere sepolta nella chiesa di Roncadelle. Suo marito morì tre anni dopo. Come erede fu designato Pietro Emanuele (1671-1745), il “buon marchese”, che ebbe incarichi di rilievo sia dai Savoia di Torino che dalle autorità venete e che sposò la contessa Ludovica Gambara.
Gli affreschi del ‘700. Le stanze del nuovo palazzo vennero affrescate e decorate nel 1702-1703.
Gli interni del pianterreno vennero affrescati dal pittore paesaggista milanese Giuseppe Merati, di cui poco si conosce, se non che è stato maestro del più noto Carlo Antonio Tavella, ma che era sicuramente apprezzato per la qualità delle sue opere. Qui il Merati ha dipinto ampi paesaggi che rappresentano monti e laghi dominati da una vegetazione rigogliosa e da cieli aperti, con scene di caccia e di pesca, che danno l’illusione di uno spazio aperto e di un’immersione totale nella natura. Sono paesaggi d’invenzione, ma ispirati al territorio prealpino lombardo.
Sulle pareti del salone centrale venne dipinta la prima visita illustre al nuovo palazzo: quella del principe Eugenio di Savoia, che nell’agosto del 1701, poco prima della famosa battaglia di Chiari, soggiornò per cinque giorni a Roncadelle ospite dal marchese Pietro Emanuele. La scena fu inserita nel consueto paesaggio frammisto di cascate e montagne, con alberi altissimi, ai quali il pittore conferì un notevole effetto di profondità spaziale e di coinvolgimento dello spettatore.
In questa rappresentazione vi sono diversi motivi di interesse. Innanzitutto vi è riprodotto il disegno del progetto edilizio del castello, realizzato solo in parte, nel quale possiamo ammirare la magnificenza che avrebbe dovuto assumere. Inoltre, il dipinto è stato oggetto d’interesse di studiosi di uniformi, perché riproduce fedelmente le divise dell’esercito di quel periodo. Infine, il paesaggio che vi viene illustrato sembra ispirato, per alcuni particolari, a quello allora esistente a Roncadelle e dintorni. Questa parete riporta la firma dell’autore e la data del 1703.
Sulle volte delle camere del primo piano, vennero invece dipinti, tra prospettive di colonne e balconate, grandi medaglioni riproducenti figure mitologiche e le stagioni dell’anno. Nel salone centrale Giove, attorniato da altri dei, incorona la Virtù, sul cui scudo venne raffigurato lo stemma gentilizio dei Martinengo Colleoni (poi sostituito nell’800 da quello dei Guaineri). Nelle altre sei stanze furono rappresentati Saturno, l’Estate, la Primavera, la Fama, l’Autunno e l’Inverno: le quattro stagioni sono simboleggiate da figure femminili di età diverse e da putti, che esibiscono alcuni prodotti tipici di ogni stagione. Sull’affresco dell’Estate è riportata la data del 1702.
Un’altra visita illustre nel nuovo palazzo Martinengo fu quella della principessa bavarese Anna Luigia Cristina di Sultzbach, che nel marzo 1722, accompagnata da un lungo corteo, mentre era in viaggio per Torino per incontrare il suo promesso sposo Carlo Emanuele di Savoia, si fermò due giorni a Roncadelle ospite del marchese Martinengo.
Il parco. Il vasto terreno che si estende a sud del castello su una superficie di oltre due ettari rimase a lungo sottoposto alle normali colture agricole. Nel ‘500 venne adibito in parte a brolo, ossia a frutteto e orto; ma solo dalla fine del ‘600 venne adibito a parco, adeguandolo alla funzione residenziale del nuovo palazzo Martinengo. Pur non essendo rimasti significativi resti di piante di quel periodo o particolari disposizioni di siepi e di viali, possiamo ipotizzare che fosse stato impostato come giardino all’italiana. La presenza di alcune piante tipiche degli antichi giardini italiani (quali il bosso, il ligustro e i tassi), che ben si prestano alla formazione di siepi, lascia supporre infatti che vi fossero strutture geometriche nella parte più vicina al castello. I Martinengo nel 1693 e 1696 avevano fatto scolpire due statue, la dea Flora e il dio Bacco, che dovevano con ogni probabilità ornare il giardino. In epoca più recente, il parco è stato curato in modo particolare dalla contessa Orsolina Maggi (1872-1958), moglie di Ercole Guaineri, che lo ha reso più vario e godibile in ogni suo angolo.
Un censimento effettuato dell’associazione locale “Il Salice” nel 1990 riscontrò la presenza di 40 diverse essenze arboree, spoglianti o sempreverdi: cedro del Libano, abete rosso, magnolia, platano, cedro dell’Himalaya, faggio pendulo, faggio tricolore, kerria giapponese, bosso, tasso, sambuco, robinia, tiglio, acacia di Costantinopoli, crespino, acero, ippocastano, pino, pioppo, lagestroemia, magnolia grandiflora, maonia pendula, filadelfo, vite canadese, fotinia cerrulata, ligustro, carrubo, salice piangente, ecc.
Ed ogni tanto non mancano sorprese. Nell’autunno del 1928 il micologo Giovanni Carini vi scoprì, sotto le conifere, un nuovo esemplare di fungo, simile alla Lepiota Friesii, di cui sembra una miniatura, e l’anno seguente l’olotipo venne chiamato Lepiota Carinii in onore dello scopritore. La presenza di questo esemplare è stata segnalata nel parco Guaineri anche il 27 ottobre 1987 sotto un centenario faggio pendulo.
Il parco del castello venne sottoposto a vincolo nel 1960 ai sensi della Legge 29 giugno 1939 n. 1497 per la protezione delle bellezze naturali, in quanto “con la sua vegetazione arborea formata da alberi secolari e dalla distesa dei prati, costituisce una nota verde di non comune bellezza”. E costituisce un provvidenziale polmone verde nel centro abitato.
Passaggi di proprietà. Pietro Emanuele Martinengo proseguì i lavori avviati dal padre, ma il progetto del castello di Roncadelle non venne terminato. Su tale scelta pesò sia il fatto di non avere eredi maschi (il figlioletto Gaspare Antonio morì nel 1710 a soli tre anni), sia il fatto che i Porcellaga di un altro ramo dinastico rivendicavano diritti sulle proprietà di Roncadelle. La lunga lite giudiziaria si trascinò dal 1708 al 1721 concludendosi positivamente per il Martinengo, che riuscì a far valere il diritto acquisito dalle donne Porcellaga di essere soggetti attivi e passivi di eredità. A suo favore si concluse anche la lite giudiziaria sul giuspatronato, tanto lunga che lasciò la chiesa di S. Bernardino senza parroco dal 1733 al 1743.
Il marchese morì nel 1745 destinando il patrimonio di famiglia alle due figlie. La proprietà di Roncadelle andò alla secondogenita Maria Licinia, che nel 1731 aveva sposato il marchese Guido Bentivoglio di Ferrara; e poi fu ereditata dalla figlia Matilde, sposata al cavalier Marcantonio Erizzo di Venezia.
La crescita civile ed economica di una parte della popolazione locale fecero perdere gradualmente importanza al castello, che in quel periodo fu alquanto trascurato dai proprietari e affidato a possidenti o professionisti, finché nel 1816 i fratelli Guido ed Andrea Erizzo, figli di Matilde Bentivoglio, lo vendettero al nobile Scipione Guaineri e a suo figlio Ercole insieme alle altre proprietà locali (cascina, cavallerizza, scuderia, case per braccianti, 181 piò di terreni, acqua della seriola Porcellaga e dell’Arinoldo) al prezzo dichiarato di 84.000 lire milanesi. I Guaineri (v.), che avevano proprietà e interessi a Roncadelle da quasi tre secoli, divennero così i maggiori possidenti locali e si occuparono anche della gestione del Comune (v.) come amministratori locali e come benefattori.
Per quanto riguarda il castello, i nuovi proprietari nel 1820 sostituirono la rampa di legno dell’ala orientale con un nobile scalone di marmo e restaurarono le stanze ed i solai da tempo trascurati; nel 1822 trasformarono il fossato in una peschiera con l’assistenza tecnica dell’ing. Antonio Sabatti; nel 1827 sostituirono il ponte levatoio con un ponte fisso in pietra. Ma l’intervento più impegnativo fu la sistemazione dell’ala nord, allora composta da una doppia fila di muri, da un’entrata coperta e da un vecchio granaio: nel 1868 affidarono al capomastro locale Faustino Valperta l’incarico di costruirvi un nuovo edificio a due piani lungo 24 metri e alto 9. Presso l’entrata nord, oltre all’appartamento del custode, venne ricavata anche una cappella privata, approvata dal vescovo di Brescia nel 1871.
Nel 1874-75 furono erette, presso l’ala occidentale del castello, una nuova casa per il fattore, una scuderia con dieci mangiatoie in pietra ed altre opere rurali, sotto la direzione del capomastro locale Angelo Verga.
Per il suo particolare interesse storico-artistico, il castello venne sottoposto nel 1912 al vincolo previsto dalla Legge 20 giugno 1909 n. 364; e poi nel 1941 alle disposizioni della Legge 1° giugno 1939 n. 1089. Nel 1960 vennero sottoposti a vincolo anche i mappali n. 347, 231, 234, 229, 378, 379, 595, compresi tra via Cismondi e via Martiri della Libertà, per la funzione di “cono ottico”, che consente di ammirare la struttura del castello.
Simbolo della Liberazione. Scipione Guaineri (1896-1978), dopo essersi dedicato alla carriera militare partecipando alla prima guerra mondiale come ufficiale di cavalleria e alla guerra in Cirenaica (1925-28), sposò Maria Mantovani di Ferrara e nel 1937, alla morte del padre Ercole, si dimise dall’esercito e si dedicò alla cura delle proprietà e all’allevamento dei cavalli, per i quali nutriva una vera passione. Di idee liberali, negli ultimi anni del regime fascista Scipione diventò un attivo riferimento per il movimento clandestino di Resistenza (v.) col nome di battaglia “Ronca”. In collegamento con le Fiamme Verdi (Brigata X Giornate) aveva il compito di formare un gruppo di patrioti locali, di distribuire la stampa clandestina e di raccogliere armi.
Nell’autunno del 1943 il Guaineri fornì alloggio nella cascina del castello ad alcune decine di soldati italiani rimasti senza direttive, considerati disertori dalle autorità fasciste, e fu per questo denunciato dal podestà locale. Interrogato in questura, venne rilasciato dopo aver fatto presente che fornire aiuto a soldati senza guida era un dovere per un ufficiale militare, quale egli ancora si considerava.
Nelle cantine sotterranee dell’ala orientale del castello, dove teneva una radio ricetrasmittente e dove depositava le copie da distribuire del periodico clandestino “Il Ribelle”, il Guaineri ospitò poi alcuni rifugiati politici (tre o quattro ebrei, il capitano di cavalleria Gobbio, due repubblicani) e tre piloti nordamericani, i cui aerei erano stati abbattuti a pochi chilometri da Roncadelle.
Dalla fine del 1943 al 1945, quando più intensi e distruttivi erano diventati i bombardamenti sulla città, il castello di Roncadelle venne identificato come una struttura idonea a proteggere i documenti del catasto di Brescia, che vennero depositati parte nello scantinato e parte nella galleria del primo piano, e ospitò due addetti dell’ufficio catastale con le rispettive famiglie.
Nello stesso periodo frequentarono il castello ospiti illustri, come il maestro Arturo Benedetti Michelangeli (1920-1995), che impartiva lezioni di musica alla giovane Carla Guaineri; il colonnello Sandro Bettoni (1892-1951), campione di ippica e comandante del reggimento Savoia Cavalleria, artefice della leggendaria carica di Isbuscenskij del 24 agosto 1942 durante la Campagna di Russia; il pilota e regista Leonardo Bonzi (1902-1977), divenuto poi famoso per la trasvolata atlantica compiuta nel gennaio 1949 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione dei bambini mutilati ed orfani.
Nell’autunno del 1944 si stabilì a Roncadelle un comando tedesco col compito di costituire una base logistica per l’assistenza agli automezzi militari tedeschi. Si trattava di circa venti uomini, che presero possesso sia della cascina adiacente al castello, che venne adibita a deposito di camion militari, sia della cavallerizza (ora cinema parrocchiale), che fu trasformata in attrezzatissima officina meccanica. Essi vennero alloggiati nel palazzo vecchio del castello, dove si scaldavano con fuochi accesi sul pavimento con scarso riguardo al patrimonio storico-artistico di quelle stanze.
Nell’aprile del 1945 un ufficiale tedesco si accorse dell’attività antifascista del Guaineri e, prima di deciderne l’arresto, volle compiere un viaggio a Milano per un riscontro delle prove o per avere indicazioni sul da farsi. Qualcuno applicò allora un fazzoletto rosso nel retro della sua automobile per segnalarlo ai partigiani e poco dopo l’ufficiale venne ucciso sull’autostrada nei pressi di Ospitaletto.
In quei giorni i soldati tedeschi scavarono diverse buche nel parco del castello per poter opporre una resistenza armata ad attacchi organizzati e, avendo ricevuto l’ordine di distruggere il castello in caso di ritirata, applicarono varie cariche esplosive alla struttura. Decisivo per la salvaguardia del castello si rivelò l’atteggiamento del maresciallo Max, che aveva familiarizzato con alcuni residenti locali. Quando l’insurrezione generale del 25 e 26 aprile costrinse il comando tedesco ad abbandonare precipitosamente la postazione di Roncadelle, il maresciallo non fece esplodere le mine e alcuni roncadellesi gli fornirono abiti civili, che gli consentirono una fuga più sicura e, forse, la salvezza. Gli altri soldati del comando tedesco vennero invece uccisi a Sant’Eufemia da una colonna partigiana e crudelmente bruciati con un lanciafiamme.
Il castello diventò allora la roccaforte degli insorti. In quelle ultime, convulse giornate di guerra anche a Roncadelle si verificarono scontri armati (uno dei quali dalle finestre del castello), cha causarono la morte di quattro soldati tedeschi e di tre patrioti locali.
Pur avendo più volte rischiato la vita per la sua attività antifascista, Scipione Guaineri nell’aprile 1945 si adoperò per evitare che il desiderio di giustizia degenerasse in vendette private o in linciaggi agli esponenti fascisti locali, orientando il movimento di liberazione verso una umanitaria pacificazione dopo un lungo periodo di lutti e crudeltà. Egli contribuì alla nascita della nuova realtà democratica di Roncadelle guidando la giunta comunale provvisoria in attesa delle elezioni del 1946, per poi ritirarsi a vita privata. Ancora una volta il castello ebbe un ruolo da protagonista nella storia di Roncadelle.